Donne che dipingono, donne dipinte
di Vincenzo De Luca
Fino alla fine dell’Ottocento poche sono state le donne che hanno potuto dedicare il proprio talento a pennelli e tele, in sintesi per la necessità di spendere il tempo totalmente in faccende domestiche e per l’educazione da impartire ai figli, per l’impossibilità di apprendere le regole dell’anatomia nella bottega del maestro e perché la pittura insieme alla scultura e all’architettura (quelle che fino a qualche decennio fa si definivano ‘arti maggiori’) erano appannaggio dei soli uomini. Si contano, nel territorio italico ed europeo, poche decine di pittrici, eppure – apparente paradosso – erano talenti altissimi e personalità complesse. Fortunate per essere, in buona percentuale dei casi, figlie di pittori e per potere quindi imparare le tecniche del dipingere dal proprio congiunto, evitando in questo modo un improbabile apprendistato in botteghe di estranei.
Un esempio alto di pittrice è Sofonisba Anguissola, il cui padre non era un artista ma credeva nelle capacità della figlia al punto da scrivere a Michelangelo Buonarroti, nel 1557, una lettera di ringraziamento per averla presa sotto la propria tutela, per l’affetto onorevole e premuroso che hai dimostrato a Sofonisba, figlia mia, alla quale hai introdotto per praticare la più onorevole arte della pittura. Giorgio Vasari conferma che i suoi ritratti sono tanto ben fatti, che pare che spirino e sieno vivissimi.
A Napoli, nel suo secolo d’oro dell’arte, il Seicento, non sono mancate pittrici. Ne parla alla metà del Settecento Bernardo de Dominici nelle sue Vite de’ pittori, scultori e architetti napoletani. Tra queste Mariangiola Criscuolo, forse figlia del pittore Giovanni Filippo Criscuolo, oppure la di lei allieva Luisa Capomazza di cui racconta che era tanto bella da essere desiderata in sposa da vari pretendenti ma di avere passione solo per la pittura al punto da rifiutare tutte le richieste di matrimonio per farsi suora e dedicare il proprio tempo a dipingere. O ancora Diana de Rosa, detta Annella di Massimo, pittrice altrettanto bella da essere stata ammazzata dal marito, il pittore Agostino Beltrano, quando scoprì che era amante del pittore Massimo Stanzione. Storia quasi sicuramente romanzata, considerando che da altre testimonianze Annella risulta morta di morte naturale.
L’esperienza estrema vissuta da un’artista nel Seicento è quella di Artemisia Gentileschi, figlia del pittore Orazio, bellissima anche lei, violentata dal pittore Agostino Tassi che collaborava a Roma con il padre. Sempre dal padre Artemisia aveva appreso i rudimenti del mestiere e la passione per Caravaggio la cui arte, dopo la morte del genio lombardo, lei cercò di recuperare a Napoli, dove lui si era rifugiato (e aveva dipinto) dopo un omicidio a Roma.
Addirittura, da molti, non fu creduta pittrice Élisabeth Vigée Le Brun (a Parigi tra Settecento e Ottocento) perché troppo bella per essere così talentuosa. Si vociferava che firmasse solo le opere, ma fosse un uomo a realizzarle.
Sulla lapide della più rappresentativa artista dell’Impressionismo (sempre a Parigi, sul finire dell’Ottocento), al cimitero di Passy, si legge Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet. Aveva sposato il fratello del pittore Edouard Manet, quasi a dire che l’essere moglie era una condizione identitaria superiore all’essere artista. Del resto sul suo certificato di morte fu scritto che era vissuta senza professione. Lei, intanto, nel suo diario aveva confessato, pochi anni prima di morire, non credo ci sia mai stato un uomo che abbia trattato una donna come suo pari, ed è tutto quello che ho sempre chiesto. Io so di valere quanto loro.
Il Novecento, complice una più veloce emancipazione femminile, racconta un numero altissimo di pittrici, molte con esperienze complesse, come Frida Kahlo. Anche la vita di Tamara de Lempicka, ricca di importanti frequentazioni, ha pagato pegno con lunghi periodi di crescente depressione.
Un elemento abbastanza costante nei dipinti delle pittrici è la complessità della donna, attraverso autoritratti e ritratti di altre donne. Quasi un punto di vista interno, omodiegetico, orgogliosamente non onnisciente e capace di mettere a nudo fragilità e desideri, aspirazioni e limiti. Valga come esempio il doppio dipinto, a distanza di circa otto anni (1612 e 1620, conservati uno a Capodimonte di Napoli e l’altro agli Uffizi a Firenze) della Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi, dove la protagonista biblica modifica l’azione dell’omicidio come è narrato nel testo sacro con una gestualità non decisa ma lenta, una sorta di vendetta studiata e di godimento per la morte dell’altro, perché nei tratti dell’eroina si sostituisce la pittrice stuprata e in quelli del generale degli Assiri si deve immaginare Agostino Tassi, lo ‘smargiasso’ violentatore.
Vette diversamente alte sono quelle di artisti, uomini, che si sono rapportati con la figura femminile nella pittura. Il punto di vista, per quanto abbiano operato una immedesimazione, è ovviamente esterno, eterodiegetico, ma non per questo meno interessante. Forse meno di denuncia sociale, ma certamente atto a riconoscere alle donne un ruolo di prim’ordine nell’intreccio delle storie narrate. Tratte dalla Bibbia o dalla mitologia, dalla storia alta o dalla cronaca quotidiana, le donne ritratte dagli uomini sono una chiave di lettura per indagare nella psicologia maschile e, in generale, in equilibri di interi tessuti sociali.